Le recensioni

CHIARA TOZZI

TANTI POSTI VUOTI

Aktis Ed. - 109 pp - Euro 7.75

Questi di Chiara Tozzi sono ritratti di vita, con la lettera ‘v’ orgogliosamente minuscola.

“Come la fai lunga, stringi, stringi – incalzava lui. Ma cosa c’era da stringere? Virginia non raccontava eventi, solo ritratti.” (pg91)

La fortuna di questi personaggi è di non trasformarsi in eventi, ma occupare l’insolito ruolo, nelle le loro vite, di interpreti principali per il breve segmento di tempo dedicato loro dall’autrice. Come quelle persone che alla vista dell’obiettivo fotografico sfuggono il viso verso il bavero, sottraendosi, ma troppo tardi. Tozzi è precisa, raccoglie il momento in cui i soggetti hanno qualcosa da nascondere o da temere, che preferirebbero evitare ma con cui inevitabilmente si scontrano; lo circoscrive con nitidezza così che alla fine non ci si pongono dubbi – tutto si compie nello spazio della storia -  e se qualcosa di “incompiuto” rimane è quella rappacificazione con sé stesso e l’altro, che mi pare uno dei tanti posti vuoti: “…La mamma singhiozzò quando la bara (di sua madre) fu chiusa. Loro (i nipoti della defunta) la guardarono, non capendo. Non riuscirono a piangere. E anche per questo si sentirono, ancora una volta, molto a disagio.” (pg 70) E’ proprio questa ‘incompiuta’, incompleta rappacificazione, che rende vivi personaggi e situazioni: “…Virginia ha ventiquattro anni e ama uno che si ubriaca…Virginia non s’interroga sui motivi del proprio vivere, ma sa di essere felice da quando la vita le ha fatto il dono di incontrare Vittorio…(pg89)  

 L’altro posto vuoto – ampio come un trono – nelle esistenze quotidiane dei personaggi è come ‘un’incapacità a comunicare’  che scorre sotto la pelle di buona parte di queste storie  e crea la tensione durante la lettura rivelandosi, a mio parere, l’operazione più riuscita di Chiara Tozzi in questo libro: “…dunque, a quel punto avrei dovuto parlare. E invece no. (…) Lui (…) cominciò a parlare al posto mio (…) che forse era il caso che parlassimo di più perché si stavano creando dei vuoti(…) e qui mi venne voglia di parlare(…) ma appena lo vidi mi prese come un blocco qui (pg 82). Per motivi di spazio e per non togliere il gusto della lettura mi fermo, ma i riferimenti al ‘parlare’ e alle ‘parole’ sono voluti e ripetuti, credo. Pare proprio che la confidenza nel raccontarsi per essere complici, siano desueti come il giradischi o la macchina da scrivere. Si percepisce un’intoppo nei rapporti interpersonali, l’incapacità ad ascoltare e un linguaggio ordito a non svelare,  difendere (sic) un soggetto dall’interlocutore: ben riuscito in questo senso il racconto in forma di dialogo “Senza Fondo”, in cui le ultime quattro battute finali sono la risoluzione di uno sterile confronto tra due  ex. Quando invece esiste la reciproca volontà di vincere lo spavento iniziale provocato dall’ ‘invasione’ del prossimo e prevale il dialogo, allora si creano incontri come quelli nel parco di  “cos’è una tavernetta”.

 Il risultato di quanto sopra è una solitudine che impedisce ai nostri personaggi di progredire, di cui l’autrice ci offre due passaggi riusciti; apprezzabili molto di più nel contesto che non isolati: Il primo: “…lui non le disse mai di amarla. Anzi, un giorno precisò, stordito come sono è tanto se ti voglio bene…” (pg 95) Il secondo è la scena finale di Arcadia, gustosissima per il ritmo di scrittura e dolorosa da accettare: il rispettivo andata e ritorno dalle camere, la ‘felicità’ di lui poco prima di addormentarsi, ci dice che forse ‘l’aria di disfacimento’ (pg26) non riguarda solo il giardino in cui si è svolto il party.

La comunità umana di questi racconti (solo quella?) pare essere sulla china tra la definitiva rassegnazione dell’anziana signora nello studio medico “…la vita è ordinatissima…mi fa ridere chi parla di caso o imponderabilità…vede, una volta capita la chiave delle cose, l’ordine di cui parlavo, si può fare in modo di non soffrire più…”(pg 86/7) e la decisione di Lucia comunicata per lettera in “Fiaba e portafortuna” che rimane l’espressione comunicativa più riuscita e onesta – proprio come dovrebbe essere il parlare guardandosi. 

Tozzi chiude la cornice del ritratto che meglio non potrebbero domandare questi personaggi senza la voglia di trasformarsi in eventi, ma si ‘accontentano’ di essere stati fotografati davanti a casa loro. In cinque di questi racconti una porta è segnale di passaggio da una situazione all’altra, ma senza picchi: non ci sono anse dietro cui si nascondono colpi di scena o capovolgimenti spettacolari, ma piuttosto una luce che a tarda sera s’abbassa, come nelle case di fronte alle nostre, e ascoltiamo il rumore dell’ultimo traffico lasciare quella punta d’ansia che sembra malinconia, forse incertezza, cancellate dall’ineluttabile prima nota del giorno dopo.

 Scrivere racconti è faticoso, non si ha a disposizione lo spazio del romanzo. E’ come una seduta dal dentista: sbagliare di qualche millimetro il punto di osservazione può causare il fallimento dell’operazione. Quando poi il materiale usato è il cosiddetto ‘povero’, il pericolo è maggiore perché si azzarda l’incolonnamento dietro ai vari Carver, Paley, per non parlare dell’alto rischio Checov.

Credo che Chiara Tozzi sia riuscita a raccontarci vite che non decollano, senza cadere nello scontato, ma attraverso queste – perciò è minimalista – ci lascia intravedere qualcosa di più grande che, come dicono i critici veri, ‘sottende’ la storia.

Si ha l’impressione che il consesso sociale (il nostro, non più le storie) abbia il bisogno urgente di riannodare i fili della comunicazione schietta – tipo casa da ringhiera –, del parlarci senza barricate davanti, con quelli di una crescita o riappropriazione culturale individuale che ci permettano di affiancare l’altro e di ascoltarlo piuttosto che affrontarlo, per non ridurlo a una nebbia come scritto nell’esergo di Montale messo dall’autrice all’inizio di questo libro.

 Marco Radessi

 Di Chiara Tozzi, ho trovato oltre a questo:

 - L’amore di chiunque – Baldini e Castoldi